Giovanni Della Casa (1951)

Giovanni Della Casa in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951, 19693.

GIOVANNI DELLA CASA

La fortuna del Della Casa fra i contemporanei e in tutto il secolo fu piú che notevole, e lezioni e commenti sulle sue liriche si moltiplicarono fra Cinquecento e primo Seicento. Poi il Settecento (compreso Vico) lo esaltò per il suo petrarchismo rinnovatore, per la sua ricchezza e complessità e la critica arcadica ne fece un caposcuola. Piú tardi il Foscolo nei Vestigi della storia del sonetto italiano riportò il sonetto Al Sonno e, sottolineando la originalità del Della Casa[1], mentre ne definiva i particolari caratteri stilistici[2], indicava anche (giustamente, ma non senza pericolo di sforzatura romantica) la presenza in quello stilista di una «naturale espressione», del suo stato d’animo e del suo tormento («quel verseggiare sí rotto ti fa sentire l’angoscia»). E il Torti nel suo Prospetto del Parnaso italiano definiva romanticamente il Della Casa «il Petrarca selvaggio del nostro Parnaso», mentre il Leopardi, ammiratore della prosa del Galateo, vantava il suo stile poetico perché «suo proprio» e perché eccezionalmente lontano dal «prosaico»[3].

Il problema del Della Casa lirico, abbandonato dopo il primo Ottocento e confuso nella generale condanna dei petrarchisti da parte del tardo romanticismo, fu risollevato dal Croce[4] e, sulla sua scia, dal Flora e dal Sapegno, nelle loro storie letterarie, mentre l’ermetico Bo[5] lo valorizzava al massimo ed il Seroni[6], studiandone la «tecnica», lo riduceva ad uno stilista complesso, ma sostanzialmente senza poesia.

Il problema è ora in termini assai chiari: puro stilista o poeta che attraverso un arduo tecnicismo sa tuttavia realizzare genuini motivi poetici? E già il Bonora, in un acuto saggio[7], mostra di aver ben inteso l’importanza e l’esagerazione del giudizio di Seroni e propone un riscatto di autentico animo poetico dentro l’arte e l’artificio del letterato (e del resto già il Croce aveva comunque escluso per i sonetti migliori una semplice altezza oratoria).

Se il Seroni ha storicizzato assai bene la poetica e la tecnica dellacasiane sottraendole alle determinazioni piú psicologiche foscoliane, alle suggestioni del Torti, ha poi finito, e a volte per gusto polemico (caratteristico il commento al sonetto Al Sonno), per negare troppo facilmente qualità poetiche, temperamento poetico ad un artista sentito piuttosto come intarsiatore, abilissimo tecnico e soprattutto oratore della poesia, scolaro, piú che di Petrarca e Virgilio, di Cicerone, sulla direzione della «gravitas» interpretata oratoriamente.

Senza dubbio il Seroni ha ben colto il procedimento costruttivo del Della Casa, la sua preoccupazione di creare «spazi sonori perfetti» e, sulla via della «gravitas» proposta dal Bembo, è indubbia un’inevitabile ricerca di appoggio oratorio (la «persuasione» raccomandata dallo stesso Bembo nelle Prose della volgar lingua), ma tutto ciò non toglie che a reggere ed utilizzare i complicati mezzi stilistici che il Della Casa riprendeva, e personalizzava, dalla maniera, dalla scuola petrarchistica, sia non solo un calcolo artistico avveduto e raffinato, ma una sua vera capacità poetica che venne enucleandosi e precisandosi soprattutto nell’ultimo periodo della sua produzione lirica.

Le ultime poesie, nella loro alta aura meditativa, nella loro suggestione di sviluppo profondo, intimo e distaccato, non potevano nascere per puro calcolo, per pura volontà oratoria, e la radice prima del fantasma in cui si compongono non può essere che poetica, come la sentiva il Tasso nella sua lezione sul sonetto «Questa vita mortal», che egli elogiava per l’alta elocuzione, ma per cui partiva dalla costatazione della presenza di due elementi indispensabili alla poesia, «la natura e l’arte», e per cui scandagliava, riferendole ad un unico fine poetico, non solo i procedimenti piú singolari del Della Casa («la difficultà delle desinenze, il rompimento de’ versi, la durezza delle costruzioni, la lunghezza delle clausole, e il trapasso d’uno in un altro quaternario e d’uno in un altro terzetto, e in somma la severità per cosí chiamarla dello stilo»[8]), ma le qualità piú interne e naturali che a quelli poi comandavano: studiava le qualità stilistiche del Della Casa, ma non credeva perciò di negarne la spinta interna poetica.

Cosí – sfuggendo alle tentazioni di una totale poeticità dei mezzi stilistici e a quelle di una totale riduzione ad artificio e retorica, senza chiedere drammi e sfoghi autobiografici, a verifica di poesia, né riducendo poesia a tecnica – si può cogliere nel piú alto stilista della lirica cinquecentesca la ricchezza e peculiarità dei suoi mezzi e la individuale voce che in quelli si esprime.

Il cammino del Della Casa è cammino dalla letteratura, e dentro la letteratura, verso la poesia, da forme piú esterne attraverso forme piú sue, prevalentemente tecniche, a forme piú genuine e sicure, ad esiti di poesia (anche se non molto numerosi) dopo prove di abilità, di tecnica, di ricerche di originalità piú all’esterno che all’interno, nel linguaggio petrarchistico piú che al di sopra di quello in un intimo rinnovamento. Meno impetuoso del Tarsia, che anche in alcuni sonetti meno riusciti può far sentire improvvisamente la sua mossa energica e personale, il Della Casa si svolge lentamente, in mezzo alla sua produzione di scrittore latino, di oratore, di prosatore, di scrittore burlesco (i capitoli della sua gioventú insidiosi per il suo cappello cardinalizio), alla sua attività di ecclesiastico e diplomatico della controriforma, ai suoi impegni sociali che ben trovano nel Galateo una salda giustificazione di moralità civile, di contatto con la società: e la stessa lirica, in gran parte di corrispondenza, contribuisce a questo senso di costruzione nella società, per la società sia pure di élite. Ma proprio nella lirica si può vedere anche lo svolgersi del Della Casa verso una sua solitudine, verso un distacco e un piú puro raccordo fra il suo animo e la sua arte, dopo tanto contatto e interpretazione delle esigenze del suo tempo.

Il carattere di attenta e paziente composizione che non mancherà mai alle rime dellacasiane (punto estremo dell’esercizio stilistico, dell’attenzione di orecchio insito in tutto il petrarchismo[9]) e che sempre meglio corrisponderà nel suo scavo intimo ad una introspezione assorta e intensamente meditativa, pone già le sue rime giovanili (poi rifiutate con energica cura di autocritica) su di un piano notevole di coscienza stilistica in contatto con il petrarchismo piú bembistico, nella ricerca piú comune di «varietà» e di scorrevolezza.

Ben presto questo stadio (e non la presenza del testo petrarchesco che seguitò ad offrire al Della Casa toni, movimenti, parole e accordi di parole secondo l’essenziale metodo dell’«imitazione originale») fu superato dal giovane poeta, ambizioso di una propria originalità dentro il linguaggio e la tematica petrarchistici nelle loro offerte di maggiore asprezza e di drammaticità isolate astrattamente per una particolare ricerca.

Cosí ben presto notiamo la ricerca di versi aspri e rotti

(ned io l’Ibero o piú Cesare accuso

ch’i lor aspri vicin, ma piango e duolmi

rotto veder il mio bel nido e arso...),[10]

di temi aspri (la gelosia soprattutto, che nei canzonieri petrarchistici era generalmente un motivo laterale e funzionale a motivi piú dominanti), presentati con esagerazione e violenza fino ad effetti di sforzo fastidioso

(se ben pungendo ogni or vipere ardenti

e venenose serpi al cor mi stanno...),[11]

di immagini o «voci» aspre («adunca falce, negra insegna, region barbara e fera, contrito cor, l’anima traviata, per dura via d’aspre montagne, acerbo orgoglio, aspro costume e rio», ecc. ecc.), sino ad azzardi di «concenti» che superano le piú comuni ricerche di «gravità»:

fa troppo ir grave questo incarco frale...;

e i freddi altrui sospir saran graditi?...

e benché un timor rio sempre m’indoglia...;

mostra gli affanni, il sangue e i sudor sparsi

(or volgon gli anni) e l’aspro tuo dolore

a’ miei pensieri ad altro oggetto avvezzi,[12]

con rime interne che appesantiscono e complicano il tessuto poetico fino ai margini di quelle ricerche barocche che poi il Della Casa avversò nel loro puntuale compiacimento concettistico.

Per lui questa ricerca stilistica (a cui poteva aver dato aiuto la lettura delle «petrose» dantesche, ma che era autorizzata come ricerca estrema ed unilaterale dallo stesso petrarchismo) fu l’inizio di una strada propria e il distacco dal piú convenzionale manierismo oltre che – pur nella sua vera rivelazione piú tarda – il primo segno di una intima inclinazione a rifiuto di canto, di facile dolcezza, di amena composizione, di facili protesti sentimentali e di consunte immagini. Ma soprattutto il mezzo di una esterna originalità, perché il carattere piú chiaro del cammino poetico del Della Casa è proprio la lenta conquista di una vera originalità sotto una originalità piú esterna, lo scavo e l’affiorare d’una voce piú singolarmente sua dentro l’esercizio piú tecnico e volontario.

Il sonetto V del Canzoniere[13] può indicare, nel suo mediocrissimo valore, il tipico passaggio dellacasiano, nella topica amorosa cinquecentesca e nel linguaggio petrarchistico, dalle forme piú platoniche e dall’atteggiamento piú solito della beatitudine amorosa, alla volontaria asprezza, al tema del tormento, a forme piú drammatiche e pur sempre autorizzate dal canzoniere petrarchesco:

Gli occhi sereni e ’l dolce sguardo onesto,

ov’Amor le sue gioie inseme aduna,

ver me conversi in vista amara e bruna,

fanno ’l mio stato tenebroso e mesto.

Ché qualor torno al mio conforto, e presto

son, lasso, di nutrir l’alma digiuna;

trovo chi mi contrasta, e ’l varco impruna

con troppo acerbe spine; ond’io m’arresto.

Cosí deluso il cor piú volte e punto

dall’aspro orgoglio, piagne: e già non ave

schermo miglior che lacrime e sospiri.

Sostegno a la mia vita afflitta e grave,

scampo al mio duolo e segno a i miei desiri,

chi t’ha sí tosto da mercé disgiunto?

I temi della natura fatale e drammatica dell’amore, della guerra d’amore, della gelosia, sorreggono questa ricerca di musica aspra per un certo compiacimento di facile dramma, e fra le prime rime, l’VIII sonetto, ammiratissimo dai contemporanei e dai secentisti, rappresenta, su questa direzione piú esterna, l’esempio piú significativo e la sintesi piú completa dei procedimenti tecnici del Della Casa: arcatura e spezzatura di versi, coppie di aggettivi o di verbi piene e battute con insistente uso di imperativi, su cui il finale interrogativo si allarga con tanto maggiore effetto; procedimenti che, sorretti da una intonazione di sicura eloquenza, rappresentano uno schema che attende di essere riempito e quindi essenzialmente ricreato da una vera vita poetica. Qui, l’alto e sicuro discorso, che fa pensare a certi discorsi lirici tasseschi, non raggiunge la poesia, rimane in un tono di magnificenza e di aspra grandiosità che pare attendere di essere investita da un vero soffio di poesia, di essere internamente illuminato da una commozione non puramente letteraria ed eloquente.

Cura, che di timor ti nutri e cresci,

e piú temendo maggior forza acquisti,

e mentre con la fiamma il gielo mesci,

tutto il regno d’Amor turbi e contristi;

poi che ’n brev’ora entr’al mio dolce hai misti

tutti gli amari tuoi, del mio cor esci;

torna a Cocito, a i lagrimosi e tristi

campi d’inferno: ivi a te stessa incresci.

Ivi senza riposo i giorni mena,

senza sonno le notti, ivi ti duoli

non men di dubbia che di certa pena.

Vattene: a che piú fera che non suoli,

se ’l tuo venen m’è corso in ogni vena,

con nove larve a me ritorni e voli?

Tenace capolavoro di tecnica ottenuto attraverso lunga elaborazione, ma non certo opera di poesia, appena accennata nei singoli movimenti piú intimamente solenni e nell’aura generale di ansia subito trasformata in onda eloquente e magnifica.

Ma questa era tuttavia la strada del Della Casa e delle sue poesie migliori nate sullo scavo e nel tormento di un paziente lavoro, in accordo con una tecnica complessa e ambiziosa di grandezza e di altezza e per ciò utilizzante, per la sua superiore musicalità, procedimenti di asprezza e di drammaticità in cui molto spesso si vide (ad esempio il Tiraboschi nel Settecento) addirittura senz’altro la poesia del Della Casa.

Ma nel sonetto alla «Cura» già si sente come la maniera «aspra» sia funzionale ad intenzioni piú larghe e poetiche, come al di là di quella tecnica di distacco e di caratterizzazione il Della Casa muovesse una tecnica piú larga e grandiosa verso risultati piú intimi, per un’architettura musicale in cui dissonanze, ombre, asprezze non fossero che funzione di una linea continua e complessa, di un tessuto poetico compatto e ricco di echi profondi dell’animo.

In questo maturarsi della poesia dellacasiana, in questo cammino verso la poesia attraverso l’esercizio stilistico e nel passaggio attraverso una tecnica dell’asprezza a forme non piú dolci, ma piú calme e profonde, assorte e intense, i temi della gelosia, della guerra d’amore vanno cedendo contemporaneamente all’affiorare di motivi piú sinceri, meno vistosi. Una gravità piú interiore, piú equilibrata, in cui l’asprezza è come un segno essenziale di complessità spirituale, permea la tecnica del magnifico e del solenne, la giustifica piú profondamente, allontanando i pericoli di una semplice declamazione e di una retorica prebarocca.

Si precisa un atteggiamento di interna visione, di meditativa contemplazione in una solitudine assorta, in cui sorgono distaccati i miti di una bellezza remota, di una pace contrapposta al tormento di inquiete aspirazioni, di una precoce vecchiaia e di un senso della vita fugace e pur misteriosamente divina, tutti perfetti e involti in un’aura di profonda ed intima lontananza. Non calore, non fremito psicologico (e qui il Della Casa rappresenta anche il punto piú alto del petrarchismo nel suo rifiuto di romanzo psicologico, come ne rappresenta il punto piú alto nella ricerca della architettura musicale e della coscienza stilistica a volte tanto spinta da scambiare stile, come mezzo, con poesia, come valore realizzato), e trasposizione di vita ed esperienza in linee e ritmi il piú possibile distaccati, assoluti.

Nasce cosí il sonetto XXXVI che, lodatissimo nel Cinquecento, piacque nei nostri tempi al Croce pur mantenendolo in un’incerta ammirazione («l’idea di una grande poesia», non retorica, non di «contenuto evanescente...»[14]). Indubbiamente un’aurea letteraria avvolge tutto il sonetto, ma una commozione base, al di là del complimento convenzionale, esiste ben chiara: contemplazione di bellezza mitica in una landa deserta, in una luce metafisica, astratta, in cui le figure mitiche si posano con solennità favolosa e lucidità quasi geometrica, in un giro ampio e lento (espressione di un immergersi nel tempo lontano), in un’evocazione solenne che tocca il suo culmine nelle prime quartine con il colore aulico dei passati remoti antiquati («feo», «chiedeo»), con il ripetersi delle parole-rime (prima passato remoto, poi participio passato) indicanti rovina ed amore insieme congiunti.

Su quella emozione di ricordo e di vagheggiamento di celebri bellezze, come da una lontananza favolosa ed interna (come diverso dal tono di risalto e di paesaggio vibrante del Tarsia e quale diverso valore ha l’immagine delle tre dive «ignude» che qui non ha il minimo accenno di sensualità e si inserisce solenne e musicale nella linea e nel quadro complesso e fermo, in una luce lontana e perfetta), si svolge la perfetta sequenza di suoni e immagini senza trepidazione e senza urgenza: il nostro «Petrarca selvaggio» – come lo chiamò il Torti[15] – superava cosí i limiti della sua tecnica aspra e la utilizzava per una musica grave e solenne, per una linea complessa e continua saldamente guidata sul tema proposto: «la bella greca ecc.» fino alla soluzione impeccabile: «da voi, giudice lui, vinta sarebbe»:

La bella greca, onde ’l pastor ideo

in chiaro foco e memorabil arse,

per cui l’Europa armossi e guerra feo,

alto imperio antico a terra sparse;

le bellezze incenerite e arse

di quella che sua morte in don chiedeo;

e i begli occhi e le chiome a l’aura sparse

di lei, che stanca in riva di Peneo

novo arboscello a i verdi boschi accrebbe;

e qual’altra, fra quante il mondo onora,

in maggior pregio di bellezza crebbe,

da voi, giudice lui, vinta sarebbe,

che le tre dive (o sé beato allora!)

tra’ suoi bei colli ignude a mirar ebbe.

Si noti che in una prima redazione, per maggiore simmetria, il Della Casa aveva scritto ai vv. 3-4

E quella che Giunon gelosa feo

quando mal seppe a Menalo celarse;

ma poi ebbe l’impressione di un eccesso di miti o di un procedimento troppo uguale e, perdendo in astratta simmetria, guadagnò in poesia con la larghezza di apertura, con il suono alto e solennemente guerresco introdotto, addirittura portando, con la rinnovata quartina e sul suo appoggio di un mito illustre e suggestivo di una grandezza e di una rovina, tutto il sonetto a quella condizione di musica alta a cui lo guidava la concezione generale della poesia di una bellezza favolosa e rievocata in una luce di memoria lontana e precisa. E anche questo particolare ci illumina sulla nascita della poesia dellacasiana; cosí caratteristica del lavoro artistico cinquecentesco in cui la poesia matura quasi dentro una sollecitazione del gusto e della tecnica sulla fantasia: condizione e limite di quella poesia.

Anche il sonetto LIV, «Al sonno», va considerato non come dramma né come semplice esercizio stilistico su di un tema convenzionale, ma come opera di uno stilista-poeta che parte da un suo movimento intimo, che sarebbe polemico e gratuito ridurre a trovata intellettuale e letteraria, e lo sviluppa in una costruzione musicale controllata in ogni particolare.

Si possono ricordare Virgilio (Eneide, II, 268-269: «Tempus erat, quo prima quies mortalibus aegris / incipit et dono divum gratissima serpit») e Ovidio («Somme: quies rerum, placidissime, Somme, deorum ecc.», Metam., XI, 623 ss.) e Boccaccio (Fiammetta: «O Sonno, piacevolissima quiete di tutte le cose, ecc., ecc.») e magari, secondo il commento del Quattromani e del Menagio, Euripide, Seneca, Petrarca, Tibullo, ecc.; e certamente nessuno vorrebbe negare gli strati letterari attraverso cui l’ispirazione del Della Casa passa anche in questo caso. Ma la presenza di modelli e persino di espressioni puntualmente inserite non implica una valutazione a semplice giuoco letterario e, se dobbiamo riconoscere la condizione di acuta letterarietà[16] in cui questa poesia nasce e si afferma, dobbiamo anche ammettere che le ricerche stilistiche (che nelle prime produzioni erano fine a se stesse) hanno nelle poesie piú mature del Della Casa una sempre piú chiara funzione poetica, servono sempre piú all’espressione di una sua vita poetica interiore.

Sicché questo sonetto è il trionfo dell’arcatura adoperata senza sosta e particolarmente efficace nelle due quartine, ma insieme ne è la sua piú intima giustificazione in un alto tono di invocazione della pace, nella necessità di un respiro lungo e solenne, di una lunga e complessa voce d’organo.

O sonno, o de la queta, umida, ombrosa

notte placido figlio; o de’ mortali

egri conforto, oblio dolce de’ mali

sí gravi ond’è la vita aspra e noiosa;

soccorri al core omai che langue e posa

non ave, e queste membra stanche e frali

solleva: a me ten vola, o sonno, e l’ali

tue brune sovra me distendi e posa.

Ov’è il silenzio che ’l dí fugge e ’l lume?

E i lievi sogni che con non secure

vestigia di seguirti han per costume?

Lasso, che ’nvan te chiamo, e queste oscure

e gelide ombre invan lusingo. O piume

d’asprezza colme! o notti acerbe e dure!

Con il sonetto al sonno siamo ormai nella zona piú intensa e originale della poesia dellacasiana, quando la tecnica dell’asprezza e della gravità[17] ha trovato la sua funzione. Sí che, se ancora in qualche sonetto vibrano versi piú isolati o immagini e metafore si affacciano con un certo compiacimento prebarocco, negli ultimi sonetti (LXII, LXIII, LXIV) tutto viene fuso e organizzato in vista di un’intera vita poetica.

La condizione della contemplazione dell’animo e dei miti che vi sorgono è ormai diventata costante sulla base della dichiarazione piú esplicita del sonetto LII. Abbandonate le aspirazioni giovanili (amore ed ambizione, ma soprattutto ambizione, ché l’amore era stato il pretesto piú esterno e convenzionale, il raccordo piú esterno con il Canzoniere e con il petrarchismo), placato l’animo in un senso nuovo della caducità, della solitudine e della salvezza nella quiete della poesia

(Feroce spirto un tempo ebbi e guerrero...

e or placido, inerme, entro un bel fiume

sacro ho mio nido e nulla altro mi cale...)

e insieme come assorto nella contemplazione della fuga rapida della gioventú e del sopravvenire della vecchiaia (serenità e malinconia si mescolano incantevolmente), il Della Casa raggiunse la sua massima altezza nei due sonetti finali.

Il primo (il capolavoro del Della Casa, il sonetto piú interamente suo) nasce da un’evocazione, fatta in zone profonde dell’animo, di una coincidenza di immagini: quella della sua vita ormai vicina alla fine e immersa in una luce avara e scarsa e quella di una selva solitaria e invernale (le selve del Montello viste da Nervesa) senza nessuna crudezza di paesaggio «visto», come paesaggio mitizzato, assoluto:

O dolce selva solitaria, amica

de’ miei pensieri sbigottiti e stanchi,

mentre Borea ne’ dí torbidi e manchi

d’orrido giel l’aere e la terra implica;

e la tua verde chioma ombrosa, antica,

come la mia, par d’ognintorno imbianchi,

or, ché ’nvece di fior vermigli e bianchi

ha neve e ghiaccio ogni tua piaggia aprica;

a questa breve e nubilosa luce

vo ripensando che m’avanza, e ghiaccio

gli spirti anch’io sento e le membra farsi;

ma piú di te dentro e d’intorno agghiaccio,

ché piú crudo Euro a me mio verno adduce,

piú lunga notte e dí piú freddi e scarsi.

Sul paragone iniziale, tutto intimo e fantastico e cosí mirabilmente svolto nel lungo periodo senza interruzione, il motivo della vecchiaia, che sale inesorabile, inquietante e pure a suo modo serena perché fatale, si traduce tutto in simboli, (disperso ogni psicologismo ed ogni esteriore drammaticità), in figure e ritmi, sinché predomina, dopo l’inizio non privo di qualche pericolo prezioso (la corrispondenza della chioma del bosco e della chioma del poeta superata però dallo slancio musicale evocativo che limita la possibile banalità o ricercatezza), nella grande ripresa della prima terzina, dove si realizza piú intensamente la impressione, accumulata lentamente nelle quartine, di una breve giornata invernale come simbolo della vecchiaia.

Fermezza espressiva e suggestione di uno stupore quasi di miracolo si uniscono in questa frase cosí perfetta nel suo accordo di suoni, di echi, di immagini rarefatte ed intime (scavate nell’intimo, staccate in una luce irreale): pare quasi che questi versi iniziali della prima terzina importino l’impossibilità di un ulteriore svolgimento. Ma ecco che un movimento piú deciso, e piú comunemente dellacasiano con le sue fratture e i suoni aspri, viene a rilevare la linea giunta alla sua espressione piú alta, a portare una conclusione decisa e grave, piú irta di suoni e di contrasti: «e ghiaccio / gli spirti anch’io sento e le membra farsi». E il «Petrarca selvaggio» interviene piú decisamente nella chiusa cosí ricca di rudi iati, di incontri aspri, e prepara il verso finale scolorito, vasto, assoluto nella sua impressione di una vita squallida e sempre piú fredda.

Mentre in questo sonetto tutte le qualità piú tipiche del Della Casa concorrono nella espressione piú esemplare del suo animo malinconico e contemplativo, nell’ultimo sonetto sembra prevalere, dopo la bellissima apertura, un tono sempre piú distaccato, una calma compositiva grandiosa sempre piú lontana da ogni motivo semplicemente psicologico:

Questa vita mortal che ’n una o ’n due

brevi e notturne ore trapassa, oscura

e fredda, involto avea fin qui la pura

parte di me ne l’atre nubi sue.

Or a mirar le grazie tante tue

prendo, che frutti e fior, gielo e arsura,

e sí dolce del ciel legge e misura,

eterno Dio, tuo magisterio fue.

Anzi ’l dolce aer puro e questa luce

chiara, che ’l mondo agli occhi nostri scopre,

traesti tu d’abissi oscuri e misti:

e tutto quel che ’n terra o ’n ciel riluce

di tenebre era chiuso e tu l’apristi;

e ’l giorno e ’l sol de la tua man son opre.

Per questo sonetto, che tanto piacque al Tasso per la sua aura solenne e religiosa, per il suo tema grandioso, ma contenuto in una vera visione interiore, in cui la caducità umana è affermata e superata nello stupore ammirato di una creazione cosmica rinnovata in una consapevolezza matura, si parlò di poesia metafisica e di John Donne; e certo qui siamo ormai lontani dalla tematica piú logora del petrarchismo bembistico e in un’atmosfera pure lontana dal maggiore equilibrio platonico-mondano di un Bembo. E si può avvertire l’avvio di una poetica secentesca che non ebbe certo in Italia la sua espressione. Ma proprio nel limite affascinante di questa posizione storica, che va solo accennata perché effettivamente l’esperienza dellacasiana nella sua interezza rimane ancora schiettamente rinascimentale (con la sua base piú evidente nel Galateo, con le sue punte piú sensibili e, come qui, piú perturbanti, nelle rime), si deve anche sentire come questo sonetto, che può rappresentare lo sforzo piú nuovo del Della Casa e il punto di distacco maggiore dalle sue basi iniziali, sia, tutto sommato, inferiore a quello precedente che per noi resta l’esempio piú completo e piú animato delle possibilità dellacasiane, del suo stilismo che una interiore visione maturatasi dopo tanto sforzo tecnicistico, non malgrado questo, ma dentro le sue offerte di mezzi funzionali, ha portato a risultati piú che semplicemente letterari e retorici.

(1950)


1 «Fu bello e forte ingegno. Uscí, se non il primo, certo il piú ardito, fuor della turba di tanti petrarchisti d’allora, e si fece altro stile». Opere, ed. naz. VIII, Firenze 1933, pp. 136-137.

2 «Il merito della sua poesia consiste principalmente nel collocare le parole e spezzare la melodia de’ versi con tale ingegnosa spezzatura da far risultare l’effetto che i maestri di musica ottengono dalle dissonanze e i pittori dalle ombre assai risentite».

3 Zibaldone, ed. Flora, II, p. 438.

4 B. Croce, Poesia popolare e poesia d’arte, Bari 1933.

5 C. Bo, Introduzione all’Antologia di lirici del ’500, Milano 1941.

6 A. Seroni, Introduzione all’ediz. delle Rime di G. D. C., Firenze 1944.

7 E. Bonora, Nota sul D. C. lirico, in «Belfagor», 15 sett. 1947.

8 Della Casa, Opere, Pasinello, Venezia, 1728, I, p. 361.

9 All’orecchio si affidava in definitiva il Bembo dopo le minute considerazioni sul valore delle voci e delle lettere nel II libro delle Prose della volgar lingua, (ed. cit., p. 57: «A servare ora questa convenevolezza di tempo, l’orecchio piú tosto, di ciascuno che scrive è bisogno che sia giudice, che io assegnare alcuna ferma regola vi ci possa»). Estremo ricorso di una attenzione ai valori fonici e musicali di eccezionale raffinatezza che richiede nel lettore moderno un adeguato riconoscimento iniziale di tale speciale poetica fra retorica e musicale. Come chiese L. Olschki (La poesia italiana del Cinquecento, Firenze 1933, pp. 24-25) che giustamente, nei riguardi delle rozze interpretazioni contenutistiche di origine romantica, osservava: «Noi abbiamo perduto il senso di queste sfumature che soltanto una paziente disamina stilistica è capace di rilevare...» (sulla posizione complessiva Olschki si veda la recensione negativa del Croce in Conversazioni critiche, V, Bari 1939, p. 120). A questa attenzione rinnovata ha contribuito l’esperienza della poesia contemporanea (ed in tal senso è indicativa l’introduzione del Bo all’Antologia già citata), ma è necessario, al di sopra di ammirazioni tendenziose, soprattutto un maggiore sforzo di comprensione storica di una poetica che non cercava originalità di soggetto e che accettava una specie di collaborazione ad un linguaggio poetico comune, quasi ad un coro su cui le singole voci cercano un varco alla propria espressione nelle sfumature piú minute e squisite. «Stimavano (dice il Galletti in una notevole recensione al Rizzi, Nuova Antologia, 1° agosto 1929) che i pensieri, anzi le sottili e delicate gradazioni del sentimento, debbono essere intime e nostre, mentre i segni con cui le esprimiamo e l’arte di armonizzarle, possono anche esser comuni a molti». Ma in effetti anche nella ricerca tecnicistica i cinquecentisti cercano contributi particolari come collaborazione alla generale espressione di una generale tematica e come rivelazione spesso esigua e laterale di un loro problema personale.

10 Cito dall’edizione di A. Seroni cit., p. 192.

11 Ed. cit., p. 196.

12 Ed. cit., pp. 204, 298, 196, 200.

13 Nell’ordine dell’edizione Gemini riprodotto dal Seroni, ed. cit.

14 Croce, Poesia popolare e poesia d’arte cit., p. 379.

15 F. Torti, Prospetto del Parnaso italiano, Firenze 1828, I, p. 222.

16 Nel sonetto della bella greca quel petrarchesco «a l’aura sparse» può esser portato ad esempio dei calcoli sottili del Della Casa, che utilizzava la bella espressione in una nuova immagine vibrante (Dafne in fuga) e pur ne mediava la suggestione illustre persino nell’eco lontana del giuoco fra l’aura e Laura come eco di quella vicenda esemplare, di quella espressione immortale.

17 L’outrance dell’asprezza è superata nella sua unilateralità e nella diversa compostezza interiore; certi acri accordi di voci e di immagini piú risentite sono subordinati ad una effettiva calma compositiva, alla costruzione di quadri interiori.